Siamo a novembre – splendida giornata, forse un po’ freddina, ma il sole è amico.

Piero, Giancarlo, ed io esperti appassionati velisti, ci imbarchiamo a Portegrandi sulla bella e potente barca di Piero.

La potenza la useremo con parsimonia: è navigando lentamente che possiamo immergerci nella bellezza del luogo. Da Portegrandi il Sile che va a scorrere sul vecchio letto del Piave, cessa di chiamarsi così, diviene “Canale Silone”, che ci porta fino a Torcello, dove le sue acque vanno a confondersi con quelle della laguna. Il tratto fino a qui è molto bello, sono tutte anse. Ma eccoci arrivati in presenza di sua maestà la Laguna, la più estesa del Mediterraneo, inserita dall’UNESCO nella lista del patrimonio mondiale dell’umanità. Da questo punto è opportuno navigare in prossimità delle briccole che indicano dove l’acqua è abbastanza profonda, epperò abbiamo anche l’ecoscandaglio montato sulla chiglia che ci dà la profondità dell’acqua, permettendoci la navigazione in tutta sicurezza.

E qui lo scenario cambia, ci sono i cormorani, gli ibis, altri uccelli che non esistevano qui fino a poco tempo fa. Ormai numerosi; abilissimi volano in picchiata, e ogni volta catturano un pesce, che inghiottono intero. I veneziani che si dedicano alla pesca li considerano una sventura. Per noi è bello vederli. Assaporiamo il profumo del mare, le distese di barena, i campanili in lontananza, isole e isolette: è un mondo speciale. Due le nostre mete più importanti: l’isola di Mazzorbo, e la maggiore Sant’Erasmo. Di entrambe è stata interessante la visita. Affrontiamo dapprima Mazzorbo, il borgo lagunare che fa parte dell’arcipelago torcellano, collegata a Burano da un lungo ponte di legno, il “Ponte Longo”. Atterriamo alla fondamenta Santa Caterina, dopo aver ormeggiato senza difficoltà, proprio davanti alla trattoria “alla Maddalena” di Bepi e Raffaella vecchie conoscenze di Piero il nocchiero, con cui tengono un rapporto di salda amicizia. Dopo la calorosa accoglienza a sapore di benevolenze, ci siamo fatti un bel giro, quanto mai opportuno per sgranchirci le gambe, e visitato la chiesa dei Santi Pietro e Caterina. Un tempo erano dieci gli edifici religiosi presenti a Mazzorbo; oggi è rimasta solo questa chiesa, nel cui cenobio, intorno al ‘400, erano ospiti le giovani religiose provenienti dalle maggiori famiglie della Serenissima, come si evince dai documenti di archivio. È un vero gioiello.

Esternamente la chiesa non è appariscente, si confonde con le altre abitazioni. Ma varcato il bel portale sormontato da una mezzaluna scolpita in marmo raffigurante le nozze mistiche di Cristo con Santa Caterina, si rimane stupiti dalla finezza  dell’impianto, a navata unica. Colpisce l’elegante soffitto a carena di nave,

il barco sospeso usato dalle monache per assistere alla messa,

i dipinti di Giuseppe Porta detto “il Salviati”. Curiosa è una serie di antichi batocchi esposti nell’atrio della chiesa, bello il trecentesco campanile con le bifore in pietra.

Antiche anche le campane alloggiate nella cella campanaria; una, di fattura bizantina,  data 1318. A questa campana, che la tradizione vuole le onde sonore in grado di allontanare i fortunali che minacciano Mazzorbo, è dedicato un sonetto del seicento:

Ti piciola campana centenera

Che lo splendor ti ha visto del passado

Dighe di quela età di questa tera

A questo populo ancuo imolecado

E dighe a elo senza confusion

Coss’hera santo Marco col leon

È dal trattato “della laguna di Venezia”, scritto nel ‘700 dal nobile veneto Bernardo Trevisan, che si  apprende: la chiesa fu sede nell’VIII sec. di monastero benedettino.

L’isola è ormai poco abitata, come un po’ tutte le isole della laguna: soprattutto anziani con il loro orticello, di buona terra friabile. Sono invece gli stranieri a comprare, un po’ per amore, talvolta per reddito. Con la passeggiata si manifesta un buon appetito, quindi, difilato “alla Maddalena”. Il trattore, il cortese Andrea, ci ha preparato una frittura mista di pesce con verdura, e un risotto di Go, accompagnati da un giusto rosato che valorizzava il cibo senza privarne il gusto. Abbiamo indugiato sulla crostata di mele, mai mangiata così buona! Con un po’ di disappunto nel lasciare quel gradevole ambiente, entriamo in barca, e rotta per Sant’Erasmo.

E qui, ancora più interessante, ci sono gli orti di Venezia.

Neanche a dire, anche qua troviamo amici di Piero. Il signor Gastone sta mettendo a dimora piantine di carciofo, con lui un giovane signore che lo aiuta, lo vado a conoscere. Beh, è di costui la proprietà, con all’interno anche una casa rimessa in ordine. Incuriosito, gli chiedo come si chiama, da dove viene. Tranquillo e gentile mi dice: <<mi chiamo Nicolay; sono nato a Londra da babbo russo e mamma americana. Ho studiato a Padova, dove ho preso laurea in lingua e letteratura russa. Ero affascinato dal mestiere del contadino, e son venuto a farlo, qui, in questo ambiente sereno>>.

A quel punto, ero affascinato, ma le sorprese non erano finite. Il signor Gastone ha lì accanto una casa di appoggio all’impegno nei lavori della terra, dove ho conosciuto la moglie, la Dariella, già campionessa di voga. Gli occhi di entrambi confermano la soddisfazione di trascorrere quel tipo di vita. E ora, il pezzo forte: di loro proprietà una vigna di “dorona”, l’uva con cui si produceva il vino dei Dogi.

L’immagine mostra una vite che ha 151 anni. Ne abbiamo anche bevuto di quel vino, un’eccellenza! Io non sono bevazzone, sono però stato produttore, ammanicato con viti e vino, la loro cultura è da sempre di mio interesse.

L’ora era ormai tale da farci pensare al ritorno, per non rientrare con il buio.

Ho lasciato quella gente e quella terra, nella convinta promessa di tornarci. Certo che lo farò, con i miei due cari amici, che ringrazio per la magnifica giornata insieme trascorsa.                                   Paolo Pilla